Quali prospettive per questa professione
Di Alessandra Di Minno*
Un giorno come gli altri, in questo anno mosso – forza quattro direbbero in mare -, ci siamo appoggiati gli uni agli altri e abbiamo parlato. Di noi, di questa professione, di cosa ne è del counseling nel tempo della pandemia. Ha ancora senso oggi formarsi per impararla? Quali prospettive e possibilità può generare se tutto attorno si restringe a vista d’occhio? E ci siamo detti questo.
Il counseling, innanzitutto, è nato dopo una grande crisi mondiale.
Nella fattispecie, dopo una grande guerra.
L’intera collettività ne usciva impoverita, dis-orientata, emotivamente provata, fisicamente debilitata.
Occorreva dare una mano per ri-mettersi in piedi, ri-orientarsi, ri-costruire, ri-vitalizzare.
Nasceva così, il counseling: da una grande crisi collettiva, sociale ed economica, dal bisogno di aiuto a ridisegnare una quotidianità e progettualità sostenibile laddove era perduto un senso.
Sono passati tanti anni: la professione ha acquisito una propria identità, si è diffusa ben oltre i luoghi in cui è nata, ha costruito un sapere, ha affinato metodi e variegato approcci.
Oggi la pandemia da Coronavirus rappresenta, per la maggior parte di noi, la prima crisi collettiva di portata così diffusa e impattante sulle vite personali e organizzative: ciascuno di noi si trova a dover far fronte come minimo a cambiamenti concreti, limitazioni, complicazioni, se non, in altri casi, a perdite del lavoro, malattia, lutti.
Dalla società del benessere al crollo delle certezze
Che il modo di abitare il nostro pianeta fosse già disastroso da tanti punti di vista lo sapevamo anche prima di questo 2020.
Eppure, abbiamo costruito insieme una base illusoria che ci ha permesso di avere percezione che tutto fosse più o meno sotto controllo; che una certa idea ed esperienza di benessere fosse e dovesse essere difesa coi denti, costasse quel che costasse; che potessimo proteggerci dai pericoli della vita rinforzando le nostre buone pratiche di sicurezza.
Abbiamo anche imparato ad anestetizzare al punto giusto i nostri stati emotivi e addestrato il nostro pensiero critico per non vedere troppo cosa stessimo combinando. Ci siamo buttati nel fare e nello stordirci.
Ma adesso tutto si sta sgretolando tra le nostre dita, mentre guardiamo increduli e atterriti: il sistema sanitario, quello scolastico, quello lavorativo sono inadempienti, impediti nei movimenti, incapaci di reggersi. Disillusione.
Non solo. Volenti o nolenti torniamo a sentire. Ci stiamo spartendo rabbia, infelicità e paura.
E non eravamo abituati a provare così tanta rabbia, infelicità e paura, se non per vicende personali dentro cui ciascuno trovava i propri modi per cavarsela.
Adesso è la collettività che tutta insieme si sta spaventando, si sta arrabbiando e si sta disamorando della vita.
Non c’è differenza nemmeno tra chi nega e chi crede, tra chi segue le prescrizioni e chi gli va contro; tra chi si affida ai governanti e chi scende in piazza: tutti facciamo i conti con un grande, ineludibile cambiamento.
E tutti sappiamo, o quanto meno sentiamo, che non si tratta di scampare il pericolo e riprendere la nostra precedente “normalità”, dimenticando il prima possibile il brutto sogno fatto.
Ma la vita è resiliente
E così, infatti, siamo riusciti addirittura a benedire il primo lockdown, ritrovando ritmi più umani, cori sui balconi, corsi e iniziative gratuite di tutti i tipi. O se lo abbiamo maledetto ci siamo comunque fatti attorno a chi non ce l’ha fatta, abbiamo reagito all’emergenza e ci siamo risollevati, con buone dosi di adrenalina. In tanti abbiamo trovato un modo, insomma.
La prima onda che arriva, alta, imponente, imprevedibile, attiva la reazione resiliente: è un fatto naturale.
La seconda onda, alta, lunga e potente, sconta la fatica della prima e chiede una risposta resiliente da maratoneta, più che lo sprint del centometrista. Chiede molto di più, insomma. Ma le forze sono meno.
Ci siamo chiesti: di che cosa c’è bisogno?
Dopo la prima onda sono scesi in campo i professionisti che per definizione sanno muoversi nell’emergenza psicologica e nelle conseguenze da trauma. Psicologia e psicoterapia studiano da tempo i traumi individuali e collettivi e hanno sviluppato capacità diagnostiche e terapeutiche mirate.
Perché c’era e c’è questo bisogno: di farsi accanto a chi sta più male.
E il counseling, a quali bisogni si può offrire?
Sembra che in Italia, nel primo lockdown, il counseling abbia fatto un passo indietro dalla scena pubblica, restando nei propri perimetri privati e non sentendo pubblicamente legittimato il proprio apporto specifico. D’altro canto le professioni forti legate alla salute e patologia psicologica si sono fatte avanti con passo sicuro, spostando con più o meno delicatezza eventuali intrusi, rivendicando il proprio diritto naturale a esercitare il saperi e tecniche.
La parola trauma ha fatto alzare le mani in segno di resa. Non è competenza nostra, si è detto, anche con una certa umiltà. Ma dobbiamo poter fare delle distinzioni.
Un cambiamento globale e collettivo, pur traumatico che sia, è diverso da un evento traumatico circoscritto, innanzitutto. È un insieme complesso di fattori che incidono su tutta la vita di tutti i cittadini, sullo stato mentale/emotivo/corporeo/comportamentale della collettività. Patologizzare e sanitarizzare il malessere collettivo emergente sarebbe un grave errore che rischierebbe di condizionarne fortemente la rappresentazione.
Non abbiamo bisogno di solcare ancor più la deriva sanitaria del nostro mondo occidentale. Non siamo malati. Non siamo un soggetto collettivo da trattare con la cautela di chi ha una precaria stabilità mentale ed emotiva.
I mutamenti epocali e le crisi mondiali sono processi che chiamano in causa saperi e pratiche diversi.
Se è vero che per qualcuno è e sarà necessario l’intervento di specialisti del trauma, per tutti coloro che non saranno “traumatizzati” in senso clinico, è e sarà utile un aiuto a mantenere il proprio equilibrio, utilizzare in modo funzionale le risorse personali e collettive, sviluppare competenze di regolazione emotiva, relazionali e di problem solving.
Per questo anche il counseling ora è chiamato a prendersi la propria parte e contribuire, legittimandosi a farlo, senza timore ma con senso di responsabilità.
Il bisogno di connessione
Il restringimento delle libertà individuali e degli spazi di movimento, la riduzione drastica di occasioni sociali in tutti gli ambiti allentano ogni forma di contatto, delegando al virtuale di farsi luogo universale per continuare la socialità. Perché di questo, della relazione, tutti e sempre ne abbiamo bisogno come il pane.
Non siamo individui separati. Non lo siamo dalla nascita e se forziamo in questa direzione, se ci chiudiamo dentro, se perdiamo la relazione, andiamo in profonda sofferenza.
Quello che continuiamo a osservare è che il vero antidoto al senso di smarrimento e solitudine, all’intensità della paura, della rabbia e dell’infelicità è la possibilità di avere connessioni buone con altri.
Fate un gruppo e condividete cosa ci sta capitando, come ci si sente, tessete fili tra le persone e li vedrete uscire diversi. Poter con-dividere, mettere in parola cosa ci accade, sentirsi parte, sentirsi insieme fa la differenza e non è uno slogan dei tanti.
Però noi non siamo una società abile ed esperta di relazioni e buone connessioni.
Ci siamo abituati da decenni a coltivare ciascuno il proprio orticello, a procurarci piacere per i fatti nostri e a tuffarci nel meraviglioso e onnipotente mondo della realtà virtuale, dove tutto, o quasi tutto, si può senza troppa fatica relazionale. E quando scendiamo in campo per ritrovarci, spersi come siamo, incontriamo a ogni angolo scontri di parole oppure ci disperdiamo, delusi, in rivoli solitari sfiduciati verso tutto.
Allora abbiamo bisogno di chi si prenda cura di generare luoghi e preservare tempi per incontrarsi e fare comunità. Abbiamo bisogno di imparare a stare in relazione. Abbiamo bisogno di stringerci per attraversare il tempo in cui siamo. E il counseling è un generatore potenziale di luoghi di relazione e un accompagnatore competente di processi di connessione.
Il bisogno di orientarsi
Non sappiamo bene dove siamo. Siamo confusi, dis-orientati da voci cacofoniche e incessanti. Se non sappiamo bene dove siamo è ancor più difficile capire dove possiamo e vogliamo andare.
Questo è il dis-orientamento: perdere la direzione, il senso, non poter prefigurare quel che sarà domani.
Se non c’è visione non c’è spazio per il desiderio. Se tutto attorno si muove in modo disordinato un primo e possibile movimento è quello di portare consapevolezza su di sé. Vedere sé con chiarezza. Che cosa sento? Che cosa penso? Che cosa desidero? Di che cosa ho bisogno? Come faccio? E ancora: di che cosa dispongo? Su che cosa mi posso poggiare? Come mi aiuto ad attraversare questo tempo buio?
Se fino a ieri ci si poteva arrabattare abdicando a una funzione di auto-consapevolezza, oggi chi non la coltiva rischia di stare molto peggio di altri. Se oggi non si sa mettere a frutto la resilienza, che nelle difficoltà ci serve, non ce la si fa. E sono tante le persone che hanno bisogno di una mano, che non sono abituate, che mancano di un alfabeto emotivo per mettere in parola sé stessi, che hanno una conoscenza fortemente parziale di sé e delle proprie reali potenzialità, di quanto possono spostare il proprio limite.
Questo, anche, è nostro campo di intervento.
Il bisogno di mantenere l’equilibrio
Le botte quotidiane all’equilibrio richiedono continui aggiustamenti.
Pensiamo al continuo bombardamento mediatico da cui è difficilissimo proteggersi. Pensiamo ai pensieri catastrofici che attanagliano tante persone. Alla solitudine forzata, all’angoscia di non farcela economicamente, alla scoperta della positività, a chi ha persone care ricoverate e non più raggiungibili.
L’emergenza è in primo piano lasciando a parte tutte le altre, innumerevoli necessità.
Imparare a vivere la propria quotidianità in questo tempo difficile, trovando modi per tenere l’equilibrio, è necessario e possibile. Ma abbiamo bisogno di aiutarci a farlo.
Abbiamo la possibilità, come professione, di accompagnare le persone a mettere a frutto il più possibile le risorse personali e collettive. Di allestire scene in cui sperimentare, laboratori e botteghe di vita quotidiana, in cui scambiarci possibilità e strategie per vivere in questo tempo stra-ordinario.
Questo lo possiamo promuovere noi, con una professione che sa farlo perché da sempre ha messo al centro la pratica, l’esperienza, lo sviluppo di competenze.
E come lo possiamo fare?
Possiamo farlo in modo sostenibile, da tutti i punti di vista.
Possiamo entrare nei tessuti e nei gesti quotidiani delle persone, non solo di chi sa già chiedere aiuto ma, forse ancor più, di chi non sa di poterlo fare, abituati come siamo a confondere la difficoltà con un’onta da coprire. Adesso siamo tutti in difficoltà e forse, finalmente, si può dire.
Possiamo bussare per entrare nelle case e non solo aspettare che ci vengano a cercare.
Possiamo creare luoghi di parola, di scambio, di narrazioni, che diffondano fiducia e possibilità.
Dobbiamo provare a superare la stretta dimensione one-to-one, che in Italia sembra ancora dominare la scena del counseling e della formazione. Sviluppare competenze nel lavorare in gruppo e con i gruppi, generare gruppi e allenare nei gruppi. Perché sentirsi parte è ora più che mai un bisogno impellente.
Dobbiamo trovare i linguaggi che entrino negli slang più masticati oggi. Entrare nelle parole quotidiane e lasciare andare ogni tecnicismo. Certo, dobbiamo saper dire bene chi siamo, che cosa facciamo, con quale valore contribuiamo.
Ma ancor più serve farlo, lasciando andare la pretesa o preoccupazione eccessiva che sia tutto già chiaro. Non lo è. Siamo professionisti a servizio della comune ricerca di modi, anche nuovi, per stare bene, anche in questo mare aperto in tempesta. E questo è comprensibile da chiunque.
Possiamo abitare gli spazi reali e anche quelli virtuali.
E non per un ripiego, ma come opportunità. Non perché è meglio di niente, ma perché la comunicazione sta cambiando e abita spazi nuovi ed estesi, dentro cui possiamo generare possibilità.
Dobbiamo poterci inventare insieme come abitare il virtuale in modo originale.
Pensiamo a una lingua straniera: non la parleremo mai bene se continueremo a utilizzare come struttura quella della nostra lingua madre. Dobbiamo lasciarla andare e immergerci in una nuova struttura e allora le singole parole troveranno modo di combinarsi in modo efficace.
Dobbiamo dialogare con le persone, ancor più che con le altre professioni.
Co-creare possibilità. Sperimentare, buttar via quando non va e ripartire da capo, cercare nuove forme.
Se lo facciamo insieme, andando avanti con coraggio, saremo sempre più una forza preziosa per questa società che ora come mai ha bisogno di volgere lo sguardo al reale ben-essere e provare a costruirne vere condizioni.
*in collaborazione con gli allievi del terzo anno del Corso triennale di formazione in counseling professionale di Collage: Roberto Bonanomi, Paola Brandolini, Damiana Chicco, Annalisa Chiofalo, Barbara Colombo, Andrea De Crescenzo, Barbara Fortunati
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