Counselor e psicologi alle prese col nostro tempo
di Alessandra Di Minno
Il titolo non promette bene in quanto a lunghezza ed effettivamente, nonostante lo sforzo di sintesi, ne è uscito un post che richiede pazienza e fiducia a chi abbia voglia di leggere. Dopo un primo viaggio nella storia delle professioni, quella di psicologo e di counselor, arrivo al presente per fare alcune considerazioni e mi protendo al futuro mettendoci qualche speranza di pace.
Siamo nel pieno della battaglia e io mi ci metto a lato per osservare la scena. Come in ogni lotta, a partire da quelle animali, l’oggetto del contezioso è il territorio. Nulla di nuovo, dunque, lo abbiamo nel nostro istinto.
Dai leoni, dai primati o da qualsiasi altro quattrozampe ci distinguiamo semplicemente perché le forme sono più “sofisticate” e si appoggiano a idee. D’altro canto ci differenziamo anche per un sadismo che a loro non appartiene proprio.
La guerra in questione avviene sul campo delle professioni di aiuto, nella fattispecie tra psicologi e counselor. Ce ne sono altre affini in corso (pensiamo a quella tra osteopati e ortopedici, per citarne una), a riprova che il territorio resta e resterà una questione con cui dovremo sempre fare i conti.
Mentre osservo i fumi degli ultimi colpi inferti[1] faccio un piccolo viaggio nel tempo e tratteggio in modo veloce e semplificato la storia per comprendere meglio alcune questioni contemporanee.
Storia che inizia, per gli psicologi, nella seconda metà dell’Ottocento in Germania, dove viene aperto il primo “laboratorio universitario” dedicato agli studi psicologici: si cerca di capire come funziona la mente, che cosa determina il suo comportamento, come si sviluppa l’essere umano dalla nascita all’età adulta.
Saranno studi che si svilupperanno nei decenni a seguire in tutta Europa e nella più pragmatica America, dove ciò che si comprende viene da subito applicato in ambito sociale, lavorativo, educativo.
E in Italia?
Nel nostro Paese dobbiamo arrivare fino al 1968 perché ci sia una prima definizione di questa figura professionale e, dieci anni dopo, con la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, lo psicologo ne entra a far parte ufficialmente. Per quanto la sua attività non sia la “terapia” in senso stretto, entrare ufficialmente nel mondo sanitario non può che segnarne l’identità: le parole che la definiscono e di cui si serve per comunicare (diagnosi, trattamento, paziente…) indicano un modo specifico di avvicinarsi alle persone: quello che parte dall’osservare e dare nome a quello che non va, per decidere che tipo di cura sia utile mettere in campo, così da riparare, sistemare, avvicinare il più possibile alla “normalità”
L’ultima definizione ufficiale risale al 1989 (legge n. 56) e resta comunque ancora generica e marcatamente vicina al mondo medico: “La professione di psicologo comprende l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione, riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico, rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alla comunità. Comprende, altresì, le attività di sperimentazione, di ricerca e di didattica in tale ambito”.
Non si fa cenno ai campi di applicazione emersi poi col tempo nella pratica fino al 2004, quando l’Ordine degli Psicologi auspica e incentiva lo sviluppo di nuovi ambiti di specializzazione e applicazione, oltre a quelli clinici e sanitari. Per citarne alcuni si parla di: psicologia della salute e del benessere, del turismo, dello sport, della comunicazione, della formazione, della scuola, dell’economia, della politica
Solo nel 2012 l’Ordine degli Psicologi pubblica le proprie linee guida in tema di prevenzione e promozione e definisce quali sono i parametri che qualificano un’azione psicologica, confermando l’espansione dei propri confini. Pochi anni fa, dunque. Un ampliamento che sembra indicare un intento di lasciare andare l’impostazione sanitaria come unica postura possibile per entrare nella vita “normale” e portare il proprio contributo pressoché in tutti gli ambiti.
C’è da dire di più, ma ci torneremo: nelle linee guida afferma che tutto ciò che riguarda la prevenzione e promozione della salute è suo ambito esclusivo, poiché unica professione con una formazione e un know how in grado di farlo.
È una storia che racconta di un emergere difficile, al fianco di altre professioni confinanti (dello psicoterapeuta[2] e dello psichiatra in primis, ma anche quelle pedagogiche e sociali) più vecchie o più forti, che da una parte ha seguito l’evoluzione sociale, culturale, di visione dell’uomo, dall’altra ha necessariamente dovuto modificarsi per stare sul mercato.
Il counseling, all’inizio…
Anche le prime forme di counseling fanno la loro comparsa agli inizi del secolo scorso, ma in questo caso ci dobbiamo spostare negli Stati Uniti: si trattava di attività di sostegno, soprattutto nell’ambito del volontariato, a coloro che avevano un disagio sociale/ambientale/relazionale, di orientamento lavorativo ai soldati rientrati dalla guerra, di orientamento scolastico a chi finiva le scuole. Si trattava di uno spazio di ascolto e di ricerca condivisa rispetto a specifiche problematiche legate alla concretezza della vita. Qualcosa di affine alla pedagogia, meno esperienziale e più consulenziale.
Ma arriviamo fino agli anni ’40: nell’ambito delle psicoterapie si sviluppa la cosiddetta corrente umanistico-esistenziale: per la prima volta una corrente della psicoterapia si discostava significativamente dall’impronta sanitaria, riparativa e direttiva, delle due correnti principali (psicoanalisi e comportamentismo) e si avvicinava ai temi tipici dell’esistenzialismo[3], riconnettendosi con la filosofia del tempo.
A me sembra che, proprio da questo momento, tra una parte del mondo psicoterapeutico e quello del counseling si generino punti di contatto significativi, che andranno a condizionare tutta la storia futura di relazione tra psicologi/psicoterapeuti e counselor.
Prima di allora la prospettiva del soggetto al centro del proprio mondo, dotato di potenzialità di autodeterminazione, crescita e trasformazione, e temi come la libertà di scelta, la responsabilità soggettiva, l’affermazione del potenziale personale erano stati a cuore soprattutto alla filosofia, a una certa pedagogia, agli approcci spirituali
La dimensione relazionale tra terapeuta/operatore (per usare un termine più generico, che si riferisce comunque a qualcuno cui si accede per chiedere e ricevere aiuto) e paziente/cliente passa da una marcata asimmetria e da uno sbilanciamento significativo del potere alla reciprocità e simmetria di potere, pur mantenendo posizioni di ruolo differenti.
Un salto quantico, diremmo oggi: un gruppo di psicoterapeuti si avvicina al counseling come filosofia e atteggiamento (i primi autori americani che si espongono verso questa nuova direzione sono stati Carl Rogers e Rollo May, seguiti negli anni da diversi esponenti della Terza Forza), al punto che nel mondo anglosassone si verifica una parziale sovrapposizione delle due figure. Allo stesso tempo le due professioni proseguono anche ben differenziate, dedicandosi l’una al lavoro nel profondo e l’altra alla concretezza dell’esperienza, e prova ne è il fatto che, sul campo di battaglia, oggi non troviamo gli psicoterapeuti
Intanto il counseling, che nel frattempo era arrivato anche in Europa (siamo alla fine degli anni ’50), proseguiva restando da una parte ancorato alle proprie origini, ma aprendosi alle conoscenze che man mano si facevano strada rispetto all’Uomo, anche a quelle di natura psicologica. È un movimento, in questo caso, che avvicina il counseling ai confini della psicologia e della psicoterapia.
Che cosa ha portato a questo avvicinamento?
Il sapere, che fino a quel tempo era rimasto appannaggio degli ambiti accademici e/o ecclesiastici, si apriva piano piano diventando accessibile a un numero sempre maggiore di persone.
Sono dell’idea che le origini “dal basso” del counseling, anche nel senso di non avere sviluppato il proprio sapere in ambito universitario, ma di trarre la propria conoscenza dall’esperienza, dal contatto diretto con le persone, con l’ambiente di vita, ne abbiano segnato profondamente l’identità.
Si avvicinava maggiormente ad altre figure delle cosiddette relazioni d’aiuto, come gli educatori e gli assistenti sociali, anch’essi a lungo fuori dal mondo accademico oltre che da quello sanitario. Solo dagli anni ’90 l’assistente sociale approdava in università, gli educatori poco dopo, con una trasformazione che sembra dare una definizione più professionale, e in parte effettivamente così è, ma che allo stesso tempo li allontanava dal contatto diretto con le realtà e le persone: oggi i neolaureati di scienze dell’educazione, per esempio, entrano nelle cooperative sociali del Terzo Settore, loro ambito maggiore di impiego, e devono imparare gran parte del mestiere. A differenza dei loro colleghi più anziani, usciti dalle scuole professionali per educatori, che ricevevano una formazione molto più tarata sul “campo”.
Un dato che non si differenzia o contraddice quello relativo ai neolaureati di qualsiasi disciplina: il mondo accademico sviluppa il suo sapere verso l’alto, nella testa, più che verso la “terra”. Darsi uno spessore teorico di base diventava però impellente per poter trovare un proprio spazio e “professionalizzarsi”.
È così che, negli anni ‘70, accade qualcos’altro che, in qualche modo, contribuisce alle guerre di frontiera tra psicologi e counselor: alcune scuole di psicoterapia, in particolare quelle facenti parte del movimento umanista, iniziano a fare formazione ai counselor.
Gli psicoterapeuti avevano un sapere organizzato e complesso, avevano una professione riconosciuta e autorevole e, alcuni di essi, una sensibilità particolare alle modalità portate avanti dal counseling.
Due interessi si sono incontrati: i counselor volevano sviluppare una base teoretica e non ne avevano una ancora propria, gli psicoterapeuti mettevano a servizio, e a rendita, la loro formazione sul funzionamento dell’essere umano e sulla dimensione relazionale.
Mi sento di dire che una buona parte del mondo del counseling ha qui scelto una deviazione di percorso, inclinandosi verso l’impostazione psi-, pur mantenendo pratiche di lavoro proprie. E che questo passaggio per gli psicologi non psicoterapeuti, che storicamente hanno continuato a faticare nel definire i propri confini identitari, si è trasformato in un vero tallone d’Achille da attaccare.
Intanto nel 1991 nasceva la European Association for Counselling (EAC), con la finalità di promuovere lo sviluppo e il riconoscimento del counseling a livello europeo, nonché di stabilire gli standard formativi comuni tra le varie associazioni dei differenti paesi. Questa la definizione di counseling adottata dall’EAC nel 1995: “Il counseling è un processo interattivo tra uno (o più) counselor e uno (o più) clienti – individui, famiglie, gruppi o istituzioni -, che affronta in una modalità olistica temi sociali, culturali, economici e/o emozionali. Il counseling può occuparsi di affrontare e risolvere problemi specifici, favorire un processo decisionale, aiutare a superare una crisi, migliorare i rapporti con gli altri, agevolare lo sviluppo, promuovere e accrescere la conoscenza e la consapevolezza di sé e permettere di elaborare emozioni, pensieri, percezioni, oltre che conflitti interni ed esterni. L’obiettivo globale è quello di offrire ai clienti l’opportunità di lavorare, con modalità da loro stessi definite, per condurre una vita più soddisfacente e ricca di risorse, sia come individui sia come membri della società più vasta”. Una definizione che ribadisce l’estraneità ai concetti di diagnosi e riabilitazione e a quell’impronta sanitaria di cui sopra
Ma ricordo che anche gli psicologi sono arrivati a una definizione di sé molto simile, nelle linee guida del 2004 e poi del 2012, pur usando parole diverse. Hanno ampliato i propri confini effettivamente sovrapponendo il proprio campo di azione a quello di una serie di altri professionisti, come i counselor, che si sono dedicati alla promozione della salute, del ben-essere, dello sviluppo delle potenzialità, del problem solving…
Quando uso il termine “professione” mi riferisco evidentemente a forme di lavoro non necessariamente di derivazione accademica, non dando per assodato che solo con questa provenienza si possa parlare di serietà, fondatezza, utilità sociale. Diversamente dovremmo restringere significativamente il campo in tanti settori, cosa non solo anacronistica, ma anche di dubbia utilità.
In Italia a partire dagli anni Novanta nascono le prime associazioni per la promozione e regolamentazione della pratica del counseling e nel 2013 il Parlamento italiano vara la Legge n° 4 (che dà disposizioni relative alle professioni non organizzate), offrendo ai singoli professionisti la possibilità di farsi rilasciare, da una associazione professionale di categoria, un attestato di qualità e di qualificazione professionale dei servizi.
Per quanto ancora “non riconosciuto”, il counseling è passato pertanto, nell’arco temporale di un secolo, dall’essere una forma di “consulenza” più “praticata” che “definita”, ad assumere la forma di “professione”[4] e, anche grazie alle associazioni di categoria, ha iniziato negli ultimi anni ad avere abbastanza esperienza sul campo da iniziare a costruire un suo specifico sapere teoretico, che fa da fondamento alla pratica
Ebbene, che cosa mi suggerisce la storia?
A me pare che ci sia stato un avvicinamento verso un centro comune da parte di entrambe le professioni, o potrei dire tutte e tre, includendo gli psicologi psicoterapeuti. Quanto meno di una certa parte, perché sarebbe banale affermarlo in assoluto.
Psicoterapeuti e psicologi si sono avvicinati a una visione dell’uomo più “esistenziale”, fuori dagli schemi medici e dalle asimmetrie di potere tipiche; i counselor e le figure affini si sono avvicinati a una maggiore conoscenza dell’Uomo e del suo funzionamento, per poter dare una forma più professionale al proprio agire e per dare una intenzionalità più attenta alla propria pratica.
Al centro i confini si sono fatti più sottili: se l’intento è la promozione della salute, inteso come ben-essere (perché l’OMS questo ci ha insegnato: che salute non è assenza di malattia), e la persona viene vissuta come parte attiva, protagonista del proprio percorso di crescita ed evoluzione, il focus si sposta, decentrandosi dal professionista per mettersi in centro, nella relazione.
Relazione cui psicologi e counselor arrivano con conoscenze proprie e altre mutuate da discipline di confine (pensiamo a quello che oggi le neuroscienze stanno insegnando a noi tutti, pensiamo alla pedagogia, all’antropologia…) e con pratiche specifiche e comuni.
È in questo centro che la prossimità scatena la guerra, una guerra di territorio, e la guerra toglie automaticamente il focus dalle persone di cui le professioni sono al servizio, spostandolo, a mio parere, sui diritti presumibilmente acquisiti di abitare quel territorio.
Ma quale diritto? Quello di avere l’esclusiva sulla promozione della salute?
Come possiamo sostenere una esclusiva quando abbiamo ormai movimenti universali chiari che indicano la salute come una delle priorità di cui tutti dobbiamo sentirci responsabili?
Quale vantaggio ricaviamo dal mettere tante energie per sgomitare quando siamo chiamati da organismi a livello mondiale quale l’OMS stesso e da documenti internazionali come la Carta di Ottawa, del 1986, che in modo illuminato indicava che la “salute e il suo mantenimento costituiscono un investimento sociale prioritario”, incitando tutte le persone interessate a unirsi nell’impegno, “al fine di costituire un’alleanza potente in favore della sanità pubblica”?
Dove porta l’insistenza di una parte, che continua a definirsi LA scienza delle relazioni, dei processi di cambiamento, del comportamento e delle sue determinanti, della cognizione, dei meccanismi mentali, nel ritenere che non ci sia spazio per figure affini, con una storia diversa, appartenenze diverse, saperi diversi, più strettamente collegati all’esperienza?
E che ne è allora degli educatori professionali, che quotidianamente si occupano di prevenzione, di salute, di relazioni, di empowerment personale e sociale? Perché gli psicologi non dichiarano guerra anche a questi “vicini di casa”?
O forse, verrebbe da chiedersi, hanno mai dichiarato guerra gli educatori ai tanti psicologi che, in difficoltà a trovare lavoro (come, ahimè, tanti oggi), entrano nelle cooperative del Terzo Settore dove la mission prevalente è di natura pedagogica e svolgono compiti per cui non hanno una formazione specifica?
Ma gli educatori sono professionisti umili, direi anche “poveri”, storicamente nati da intenti politici e di servizio, abituati per forma mentis a sedere a tavoli di rete, con altri professionisti o non professionisti. Sono abituati a insegnare ai colleghi psicologi l’arte pedagogica e a imparare da loro a conoscere attraverso un’altra prospettiva.
Sì, ecco, proprio questo immagino che possa esserci sempre più al centro: la consilienza. La convergenza e l’integrazione, cioè, di conoscenze derivanti da contesti del sapere diversi, come ha ben visto il biologo Edward Wilson[5].
L’articolo 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani recita: “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità.”
Ebbene, si prendano, gli psicologi, con entusiasmo e umiltà questo servizio al tavolo delle professioni e possano i counselor imparare da loro come da altri saperi, per avere accortezze sempre più raffinate nel loro modo di entrare in relazione coi clienti.
Dobbiamo superare a mio avviso quella convinzione che impregna ancora l’immaginario collettivo, secondo cui la formazione accademica resta un plus ineguagliabile, definisce ancora il maggior potere di certe professionalità rispetto ad altre.
Nella mia personale esperienza, che posso dire simile a quella di tante altre persone che conosco, sono uscita dalle porte dell’università sapendo ben poco dell’essere umano in carne e ossa. E, soprattutto, non avendo competenze specifiche di counseling. L’università, per l’impostazione che aveva e continua ad avere, non forma al lavoro. Forma alla teoria che sottende le professioni. Non solo. Se non fosse stato per mia spontanea scelta, avrei potuto aprire da subito un mio studio senza mai avere fatto nulla per la mia crescita personale e avrei accolto persone in difficoltà non avendo mai lavorato sulle mie di difficoltà.
La mia crescita personale e la conoscenza approfondita dell’essere umano reale è avvenuta grazie all’aver incontrato e integrato altre professioni, quella pedagogica prima e quella del counselor poi. Due professioni venute “dal basso”. Nella formazione in counseling sono stata obbligata a fare un percorso di crescita personale e di gruppo, allenandomi con costanza per tre anni nelle relazioni con gli altri, come in una palestra si allenano e si distendono i muscoli. Ho respirato un sapere esperienziale che non avevo mai incontrato prima.
Penso che nella società di oggi sia un valore il fatto che aumentino i contesti di formazione e pratica alla relazione, alla consapevolezza e alla crescita personale, perché una delle maggiori piaghe di oggi è proprio la fragilità relazione e lo smarrimento individuale. Abbiamo bisogno prima di tutto di risorse umane che si facciano vicine alle donne e agli uomini di oggi per accompagnare dentro questa nuova complessità, non accessibile a tanti, se non a prezzo di stare ai margini o di sviluppare strategie difensive e forme di disagio ampie e difficili fa contenere.
E in questo movimento del mettersi a servizio incontriamo i nostri clienti che, sempre più competenti e formati alla autodeterminazione, si stanno prendendo il diritto di scegliere a quale professionista rivolgersi, optando ormai con sempre maggiore frequenza per figure meno connotate dall’impronta sanitaria, quali i counselor o i coach
Fuori dal campo di battaglia io vedo al centro un tavolo in cui sedere per scambiare e scegliere strade, dove al posto del prevalere ci sia il rispetto e l’impegno comune di fare bene.
Ha anche un nome, questo tavolo, come esempio concreto che è davvero un modo possibile e non una fantasia edulcorata: il CIPRA (Coordinamento italiano professionisti delle relazioni di aiuto, www.cipraweb.it). Un movimento coordinato di professionisti diversi che mettono al centro riflessioni e direzioni, ciascuno mettendo a disposizione la propria prospettiva.
Ha anche un corrispettivo nella mia pratica lavorativa, perché io ho una formazione di educatrice, di psicologa, di counselor e vivo da cosmopolita questa mia triplice appartenenza, imparando e insegnando.
Ha un dato di realtà a sostenerlo: che quando si conoscono i propri confini, li si rispetta, facendo propri i principi deontologici di riferimento, si offrono contesti ed esperienze tipiche di ciascuna professione e si invitano i propri clienti a rivolgersi a colleghi più adatti relativamente ai bisogni portati.
Di guerra tra poveri si sente parlare da sempre. Accanto all’istinto territoriale troviamo il bisogno di sopravvivere e sbattiamo contro un mercato attuale che non facilita né alimenta il lavoro.
Le difficoltà in tal senso riguardano tanti e probabilmente sono un motore potente di questa guerra. Il bisogno di sopravvivenza attiva meccanismi primitivi, seppure mascherati da argomentazioni e apparenze più evolute. Ancora una volta mi chiedo se le alleanze, più che le contrapposizioni, non possano essere una via più efficace.
Davvero crediamo, noi psicologi, che togliere dal mercato la figura del counselor risolverebbe i nostri problemi di sopravvivenza? Davvero crediamo che sia togliendo, piuttosto che cercando soluzioni creative, che riusciamo a realizzare maggiore benessere per noi e per gli altri?
[1] A gennaio 2019 il Ministero della Salute, seguendo una tesi fortemente sostenuta dall’Ordine degli Psicologi, ha chiesto a UNI – associazione no profit che in Italia elabora e pubblica norme tecniche per tutti i settori lavorativi portandole in ambito europeo, al fine di uniformare il più possibile il mercato – di sospendere il processo di normazione della figura professionale del counselor.
[2] Va detto, per precisione, che la psicoterapia non è considerata una professione autonoma, ma una specializzazione della psicologia.
[3] L’esistenzialismo è una corrente filosofica di pensiero che si è sviluppata tra gli anni ‘20 e ’50, i cui maggiori rappresentanti sono stati Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Martin Heidegger, Karl Jaspers, che enfatizzavano il valore dell’esistenza umana, soggettiva e collettiva.
[4] Etimologicamente, da pro-fiteri, parlare davanti, ovvero qualcosa che si dichiara apertamente e pubblicamente.
[5] Consilience: The Unity of Knowledge, 1998.
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