Pochi giorni fa, leggendo un articolo sulla Deontologia e la legislazione riguardanti la professione del counselor, riflettendo sui contorni che delimitano questa professione rispetto ad altre vicine e sul senso di un’etica seria e attenta, mi sono sorpresa a tradurre tutto in immagini, apparentemente lontane dal tema, ma che mi hanno dato uno spunto di ulteriore riflessione.
E sono tornata ad anni fa, su una spiaggia vicina a Rio de Janeiro, in Brasile, mentre osservavo per ore incantata giovani surfisti che cavalcavano le onde dell’oceano. Con una tavola lunga un paio di metri e spessa pochi centimetri si prodigavano in acrobazie con grazia e leggerezza. Sotto di loro le lunghe onde del Pacifico, acqua in movimento, spinte, irregolarità.
Osservavo e mi chiedevo quale fosse il loro segreto e immediatamente coglievo la loro perseveranza: qualsiasi cosa accadesse, che finissero in acqua o che riuscissero a surfare una lunga onda, riprendevano sotto braccio la loro tavola e ricominciavano da capo. Per ore. Tanta passione per quel che facevano e allo stesso tempo grande tenacia e tanta pazienza.
Ed ecco che le due immagini, il surfista e il counselor, cominciano a sovrapporsi dentro me: per poter esercitare la sua professione il counselor lavora tanto su di sé, deve saper surfare per primo le onde della vita. Soltanto così può, nel percorso con il proprio cliente, sostenere la perseveranza, contenere lo scoraggiamento, nutrire con la passione e la fiducia se stesso e la relazione di counseling. Un maggiore benessere si conquista con l’allenamento quotidiano.
Mi colpiva la capacità di restare in equilibrio: le forze dell’oceano sono potenti, imprevedibili e controverse. Spingono da una parte e dall’altra. Il surfista poggia i propri piedi e trova radicamento su una piccola tavola di legno e fonda il proprio equilibrio sulla capacità di spostare continuamente il baricentro in modo da mantenersi in una posizione che gli permetta di stare, scivolando su queste forze sotto di lui e sfruttandone l’energia. Un equilibrio che fa coppia con flessibilità, possibile perché sempre dinamico.
Ci diciamo ormai da anni, da quando il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman ha coniato l’espressione di “società liquida”, che vivere oggi è un navigare a vista, con poche certezze e punti di riferimento, in cui ciascuno è alle prese con la necessità di trovare un modo per essere visto, considerato e potersi esprimere (nelle relazioni, al lavoro, nella propria progettualità…). Il terreno liquido è continuamente in divenire, poco stabile e il nostro senso di sicurezza è fortemente messo alla prova.
Il counselor accompagna a trovare un proprio radicamento: un radicamento corporeo, emozionale, cognitivo, relazionale. Accompagna a sentire il proprio baricentro, spostandolo verso l’altro ma senza mai perdere contatto con sé. Persegue l’equilibrio e allo stesso tempo coltiva la capacità di adattamento, perché stare in questo mondo è possibile ma richiede competenze nuove che ciascuno deve poter trovare dentro e fuori da sé.
E il surfista e il counselor hanno un sapere su cui fondano queste competenze: hanno a che fare con l’acqua, con i venti, con le condizioni dentro cui si muovono e la loro sapienza permette loro di utilizzare al meglio quello che hanno intorno. Non iniziano a planare l’onda in un momento qualsiasi: aspettano che arrivi a un punto tale per il loro take off, il movimento della partenza, sfruttando appieno la forza e il movimento.
Nel counseling un gran lavoro iniziale si concentra sulla conoscenza di sé e la consapevolezza di sé, delle proprie risorse, delle fragilità, del contesto, come condizione per fare scelte, prendere nuove strade, sperimentare modalità inedite, cambiare rotta, cogliere occasioni.
È equipaggiato, il counselor/surfista: tavola, muta, calzari, a seconda delle condizioni. Tecniche, strumenti, teorie di riferimento, un setting curato. Non si improvvisa, un counselor/surfista: si prepara. È sua responsabilità. Si attrezza a seconda del modo di surfare e del tipo di onde.
Nel nostro caso, in Collage Counseling, facciamo riferimento all’approccio Bioenergetico e Gestaltico, accompagnati dai maestri fondatori e dagli ampi sviluppi che in questi anni entrambi gli approcci hanno avuto. Proponiamo un lavoro corporeo, espressivo, integrativo delle dimensioni umane (pensiero, corpo ed emozioni) e ci equipaggiamo per accompagnare i nostri clienti. Altri colleghi utilizzano approcci e tecniche di lavoro diverse, offrendo in questo modo possibilità diverse.
Sembra scontato ma è bene precisarlo: il counselor/surfista non è un sub. Non si cala nelle profondità, come lo psicoterapeuta. Il counselor/surfista conosce i propri limiti e le proprie specificità. Le forze del mare e le sue traiettorie sono spesso imprevedibili e a volte hanno una grande forza impattante.
Certo, il counselor/surfista può cadere e finire sotto il pelo dell’acqua, ma sa tornare su. Impara a prevedere quando un’onda si romperà, come impara ad analizzare i propri errori e anche a cadere, senza resistere alla forza travolgente, ma assumendo una posizione protettiva. E deve sapersi rialzare.
È un richiamo alla prudenza: il cliente ha il diritto di cadere sott’acqua e contattare parti di sé sofferenti o esperienze passate dolorose ed è nostra responsabilità offrire tutto l’aiuto che possiamo, inviando ad altri professionisti adatti a navigare in acque più profonde, se è il caso.
Il buon counselor/surfista aderisce a un’etica ben precisa: abita il mare con altri, ne condivide le onde e deve poter muoversi in libertà, senza danneggiare nessuno. Un cliente che sceglie un percorso di counseling sale su certe onde e non su altre, e noi con loro. L’etica del counseling è un riferimento comune e chiaro; la sua trasgressione eventuale, come sempre, attiene alla responsabilità individuale.
E infine. Sulla spiaggia di Rio di surfisti ce n’erano parecchi, perché il buon surfista non va mai in mare da solo. La lezione con Lucia si chiudeva proprio così: il buon counselor fa squadra per non essere solo, per non sopravvalutare sé e per generare sapere, condivisione e innovazione. I counselor hanno associazioni di categoria, fanno costantemente supervisioni e corsi di aggiornamento per poter continuare a farne parte, per rimanere al passo e sentirsi parte di un cerchio più ampio con cui… andar per mare.
(Le immagini sono tratte dal film “Un mercoledì da leoni”, 1978)
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