
Il counselor accompagna a trovare un proprio radicamento: un radicamento corporeo, emozionale, cognitivo, relazionale. Accompagna a sentire il proprio baricentro, spostandolo verso l’altro ma senza mai perdere contatto con sé. Persegue l’equilibrio e allo stesso tempo coltiva la capacità di adattamento, perché stare in questo mondo è possibile ma richiede competenze nuove che ciascuno deve poter trovare dentro e fuori da sé.
E il surfista e il counselor hanno un sapere su cui fondano queste competenze: hanno a che fare con l’acqua, con i venti, con le condizioni dentro cui si muovono e la loro sapienza permette loro di utilizzare al meglio quello che hanno intorno. Non iniziano a planare l’onda in un momento qualsiasi: aspettano che arrivi a un punto tale per il loro take off, il movimento della partenza, sfruttando appieno la forza e il movimento.
Nel counseling un gran lavoro iniziale si concentra sulla conoscenza di sé e la consapevolezza di sé, delle proprie risorse, delle fragilità, del contesto, come condizione per fare scelte, prendere nuove strade, sperimentare modalità inedite, cambiare rotta, cogliere occasioni.
È equipaggiato, il counselor/surfista: tavola, muta, calzari, a seconda delle condizioni. Tecniche, strumenti, teorie di riferimento, un setting curato. Non si improvvisa, un counselor/surfista: si prepara. È sua responsabilità. Si attrezza a seconda del modo di surfare e del tipo di onde.
Nel nostro caso, in Collage Counseling, facciamo riferimento all’
approccio Bioenergetico e Gestaltico, accompagnati dai maestri fondatori e dagli ampi sviluppi che in questi anni entrambi gli approcci hanno avuto. Proponiamo un lavoro corporeo, espressivo, integrativo delle dimensioni umane (pensiero, corpo ed emozioni) e ci equipaggiamo per accompagnare i nostri clienti. Altri colleghi utilizzano approcci e tecniche di lavoro diverse, offrendo in questo modo possibilità diverse.
Sembra scontato ma è bene precisarlo: il counselor/surfista non è un sub. Non si cala nelle profondità, come lo psicoterapeuta. Il counselor/surfista conosce i propri limiti e le proprie specificità. Le forze del mare e le sue traiettorie sono spesso imprevedibili e a volte hanno una grande forza impattante.
Certo, il counselor/surfista può cadere e finire sotto il pelo dell’acqua, ma sa tornare su. Impara a prevedere quando un’onda si romperà, come impara ad analizzare i propri errori e anche a cadere, senza resistere alla forza travolgente, ma assumendo una posizione protettiva. E deve sapersi rialzare.
È un richiamo alla prudenza: il cliente ha il diritto di cadere sott’acqua e contattare parti di sé sofferenti o esperienze passate dolorose ed è nostra responsabilità offrire tutto l’aiuto che possiamo, inviando ad altri professionisti adatti a navigare in acque più profonde, se è il caso.
Il buon counselor/surfista aderisce a un’etica ben precisa: abita il mare con altri, ne condivide le onde e deve poter muoversi in libertà, senza danneggiare nessuno. Un cliente che sceglie un percorso di counseling sale su certe onde e non su altre, e noi con loro. L’etica del counseling è un riferimento comune e chiaro; la sua trasgressione eventuale, come sempre, attiene alla responsabilità individuale.
E infine. Sulla spiaggia di Rio di surfisti ce n’erano parecchi, perché il buon surfista non va mai in mare da solo. La lezione con Lucia si chiudeva proprio così: il buon counselor fa squadra per non essere solo, per non sopravvalutare sé e per generare sapere, condivisione e innovazione.
I counselor hanno associazioni di categoria, fanno costantemente supervisioni e corsi di aggiornamento per poter continuare a farne parte, per rimanere al passo e sentirsi parte di un cerchio più ampio con cui… andar per mare.
(Le immagini sono tratte dal film “Un mercoledì da leoni”, 1978)