Gli ultimi giorni di giugno hanno visto il nostro Paese protagonista di una vicenda che mi ha fatto pensare – ancor più di quanto già non pensi – all’importanza di saper dialogare con gli altri, di sostenere e argomentare in modo efficace le proprie opinioni in pubblico, ed eventualmente di discutere, ma con modalità civili, senza scendere in polemiche sterili o, peggio, utilizzare minacce, insulti e volgarità contro l’interlocutore, “colpevole” di pensarla in modo diverso.
La vicenda alla quale mi riferisco (ma non è purtroppo l’unica) è quella che ha visto protagonista Carola Rackete e la Sea Watch. Non è purtroppo l’unica, dicevo, perché è stata solo una delle tante situazioni per le quali sui social si è scatenata una bagarre in cui a perdere, davvero, è stato soprattutto il senso civile.
E non mi riferisco alla questione dei migranti in sé (anche se ho ovviamente una mia opinione in merito), ma al modo in cui è stata trattata; in altre parole, non ai contenuti dei dibattiti e alle diverse visioni sul tema, ma alla forma, alla modalità con cui le discussioni, le polemiche, le diatribe si sono sviluppate.
Penso in particolare a Facebook: social che abitualmente frequento e sul quale posto spesso miei commenti su vicende legate al qui e ora delle nostra esistenza pubblica, su quella insomma che è la vita “politica” nel senso più lato. Politica da polis, così come civile deriva da civis: città, ovvero comunità.
Fare politica per me vuol dire (anche) questo: scendere in campo – per esempio su Facebook, l’agorà dei tempi moderni – ed esprimere una propria opinione su fatti e commenti legati a fatti. Politica che quindi è alla portata di tutti, visto che non esiste agorà più vasta, trasversale e “democratica” di FB. Politica che non c’entra con i partiti, con le sette, con le chiese, con le mafie, con le combriccole di vario colore ma è semmai impegno del singolo a partecipare, a esprimersi, a valorizzare, a criticare, a opinare, ad argomentare, a disquisire, a dissertare, a dibattere… a ragionare, insomma.È questa capacità (e volontà) di ragionare che osservo venir meno.
Viene meno quando chi si esprime non argomenta, non spiega, non ascolta, non rispetta le regole minime di una discussione civile, ma urla, aggredisce, insulta, “vomita” contro l’avversario, presunto o percepito come tale.
Questa incapacità – che purtroppo c’è da sempre, ma nell’agorà di Facebook o Twitter appare amplificata in maniera esorbitante – è collegata, ritengo, alla incapacità di stare in un relazione diadica o gruppale osservando le regole relazionali che permettono una dinamica sana: ascolto reciproco, rispetto, accettazione della diversità di opinioni, capacità di dialogo, spirito critico, dialettica, argomentazione basata sui principi logici di non contraddizione, ecc.
In altre parole, un modo di parlare che (fatto salvo l’uso corretto dell’italiano… ma questo richiederebbe un altro post) permetta di capirsi anche quando non si è d’accordo.
Che cosa, oltre all’ignoranza di tali regole relazionali, rende più difficile raggiungere questo obiettivo? Il coinvolgimento emotivo.
Sempre rileggendo quanto pubblicato nei giorni scorsi, è facile osservare come migliaia e migliaia di persone siano intervenute sulla vicenda Sea Watch aggiungendo “colore emotivo” ai propri interventi, come se tale vicenda li riguardasse personalmente. Come se Carola fosse una persona nota, vicina, anzi “amica” o “nemica”, amata o odiata secondo i casi. Con una intensità emotiva stupefacente.
Non è la prima volta: ricordate gli “innocentisti” e i “colpevolisti” di varie vicende di cronaca italiane, negli ultimi decenni? L’Italia è un paese “caldo”, gli animi si infervorano facilmente, lo sappiamo. Ma mi pare che l’acrimonia, la perfidia, la volgarità raggiunte ultimamente siano diventate più accese e più gravi. E dietro c’è soprattutto la rabbia.
Quello che ho osservato e che osservo mi fa dire che molte persone non solo hanno difficoltà a gestire le proprie emozioni, la rabbia in particolare, ma tendono a “scaricarle” in situazioni “altre” e in particolare sugli altri in quanto diversi. Su chi è più debole, per lo più. Su chi non urla altrettanto. Su chi la pensa in modo diverso.
Tutto questo per dire che, visto che a scuola purtroppo non si insegna a stare in relazione né a gestire le emozioni (mentre sarebbe il requisito di base per essere dichiarati “maturi”), ci vuole qualcuno che aiuti ad acquisire questa capacità, ad affinarla, o a ritrovarla se perduta. E questo qualcuno, secondo me, può essere il counselor.
Il counseling è una professione “sociale” e “politica” come poche altre, perché permette alle persone di affrontare le dinamiche relazionali in modo più competente ed efficace: consente di fare chiarezza dentro di sé, di distinguere gli aspetti emotivi da quelli cognitivi, di conoscere meglio sé e l’altro. In altre parole, di muoversi in modo più civile e fluido nella relazione con gli altri, nei vari contesti della nostra esistenza.
In un percorso di counseling le persone imparano ad ascoltare l’altro perché si sentono in primis ascoltate con rispetto ed empatia dal counselor; imparano a non giudicare perché non si sentono giudicate; o comunque, visto che non giudicare del tutto è un obiettivo difficilmente raggiungibile, imparano a riconoscere il proprio giudizio e, semmai, a chiedere scusa.
Il counseling è per tutti e può servire a tutti. Perché tutti, anche se stiamo mediamente bene, possiamo aver bisogno di migliorare le nostre capacità relazionali. Possiamo incrementare la nostra modalità di dialogare e di manifestare con chiarezza il nostro pensiero, di esprimere le nostre emozioni, di dichiarare i nostri bisogni e desideri, di esercitare i nostri diritti. Tutti abbiamo bisogno di trarre il meglio possibile dalla nostre relazioni, sia quelle più vicine – affettive, di coppia, familiari o amicali – sia quelle professionali.
Abbiamo bisogno di comunicare e di sentire che i nostri messaggi arrivano agli interlocutori in modo comprensibile; abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti, accettati, apprezzati, valorizzati. E per fare questo, per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno, è necessario lavorare su di sé, sul proprio qui e ora, sul proprio modo di raccontarsi e di entrare in contatto.
Assertività infatti non significa alzare la voce a un volume sempre più alto; vuol dire affermare le proprie opinioni in modo consapevole. Riferirsi a fatti, metterli in una sequenza logica, con una struttura coerente, utilizzare analisi e sintesi. E fatti sono anche i vissuti individuali: le sensazioni, le emozioni, le percezioni, oggetto consapevole della nostra attenzione (della nostra osservazione, del nostro ascolto, del nostro “sentire”) se abbiamo imparato a farlo.
In un percorso di counseling si impara infatti a “sentire”, oltre che a “pensare”. Un counselor professionista infatti è formato specificamente nella relazione d’aiuto, è formato ad accompagnare le persone a distinguere le proprie emozioni e i propri vissuti, a non giudicarli, ad accettarli, a elaborarli, a esprimerli verbalmente acquisendo a poco a poco un linguaggio adeguato.
A scuola, ho detto prima, tutto questo non ci viene insegnato. E nemmeno all’università. Mentre in famiglia lo possiamo imparare solo se i nostri genitori lo hanno imparato loro per primi, e hanno poi saputo insegnarlo a noi. Per questo ha senso lavorare su di sé, individualmente e/o in gruppo: ci permette di acquisire il valore di ciò che siamo e del nostro posto nel mondo, e il senso di responsabilità che tutto questo comporta. Una maggiore autostima comporta una migliore capacità di affermare sé e le proprie idee, senza aver bisogno di gridare.
Il counseling ha una valenza politica e sociale perché promuove i valori che sono propri della vita sociale e politica, offrendo un percorso dedicato alla relazione, alla comunicazione, al riconoscimento reciproco, alla consapevolezza, alla espressione di sé, al contatto, al dialogo.
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