Uno strumento per lavorare sui nostri angoli ciechi
La finestra di Johari è uno schema messo a punto negli anni Cinquanta da Joe Luft e Harry Ingram, e poi variamente applicato in molti ambiti, in contesti di comunicazione interpersonale, di dinamica di gruppo o tra gruppi, nelle organizzazioni.
Ne parla, tra gli altri, anche Irvin Yalom nel suo libro Il dono della terapia, sottolineando che si tratta di un “venerabile paradigma della personalità usato nell’insegnamento per i leader e per i membri del gruppo, a proposito di autosvelamento e feedback”, che “ha molto da offrire anche nella terapia individuale”.
Ma non solo, aggiungiamo noi: ha molto da offrire anche nel counseling, sia al cliente, sia al counselor.
Lo schema è un quadrato, a sua volta diviso in quattro quadranti. In orizzontale viene indicata la conoscenza che ognuno ha di se stesso: in particolare, il lato sinistro esprime la parte nota di sé, quello destro la parte sconosciuta di sé. In verticale viene riportata la conoscenza che gli altri hanno di noi: la parte alta esprime ciò che di noi è noto agli altri, quella bassa ciò che di noi è sconosciuto agli altri.
E se nella psicoterapia la speranza, dice sempre Yalom, è diminuire l’ampiezza della cella inconscia, cioè di aiutare il paziente a esplorare e a conoscere gli strati più profondi di sé, questo, ovviamente, NON è un obiettivo del counseling, che opera a un livello diverso, cercando sì di favorire una maggiore consapevolezza nel cliente, ma una consapevolezza nel presente, che si manifesta nella capacità di dare parola ai propri vissuti nel qui e ora.
Piuttosto, è la cella del “cieco” che, da counselor, ci interessa esplorare con il cliente. Ed è mediante l’azione del feedback che la cella del sé cieco diventa sensibilmente più piccola: accompagnare le persone a vedersi per come vengono viste dagli altri e aumentare la loro capacità di stare con quel che c’è può essere per loro di grande aiuto. Mediante il feedback del counselor il cliente può entrare in contatto con il proprio atteggiamento e comportamento, imparando a valutarne l’impatto sugli altri.
E a maggior ragione in un counseling di gruppo, dove i partecipanti interagiscono fra loro. Posto che quando le persone si conoscono si amplia il primo quadrante mentre si riducono gli altri, al crescere della fiducia tra i membri del gruppo possono cominciare a esserci dei “disvelamenti” progressivi che espandono ulteriormente il quadrante “pubblico” rispetto a quello “segreto”. Ma per incidere sul quadrante “cieco” il counselor che facilita il processo deve accompagnare i vari membri del gruppo a darsi dei feedback utili, efficaci, che non siano frutto di giudizi, proiezioni o interpretazioni, ma di osservazioni sul qui e ora e sulle sensazioni/emozioni provate da chi ascolta.
Come sempre, empatia, accettazione e congruenza devono sostenerci nel processo di counseling e sono alla base della nostra relazione con il cliente, o i clienti se conduciamo un gruppo. Relazione che può nutrirsi proprio di quella interazione che si svolge lì, nello spazio cieco, e che – lo sa bene soprattutto chi lavora con il corpo – si fonda sul linguaggio corporeo e paraverbale assai più che sulle parole. E anche i feedback del cliente o dei membri del gruppo possono servire a noi counselor per “fare” luce nei nostri angoli bui!
Non solo. Per me che lavoro tanto con l’Enneagramma, appare evidente quanto la grandezza dei quadranti sia anche collegata a elementi di maggiore o minore egosintonia, che hanno a che fare con la struttura caratteriale: per esempio, una minore o maggiore stima di sé è facilmente collegabile a una maggiore o minore ampiezza della cella “cieca”, perché è più facile che tendano a sottovalutare i propri angoli bui coloro che si piacciono e stanno bene con se stessi.
Con un gruppo di partecipanti a una mia giornata “Conoscersi con l’Enneagramma”, per esempio, ho chiesto di osservare la finestra di Johari e, stando nel qui e ora, attribuire un valore percentuale alla grandezza di ogni cella, in modo che la somma dei quattro valori desse 100.Ne sono emersi risultati molto interessanti. Per esempio, ci sono persone che ritengono un valore avere una cella “segreta” ampia, perché tendono per carattere a tenersi dentro, per sé, i propri vissuti e a non disvelarsi; mentre per altre è fondamentale ampliare il più possibile la cella “pubblica”, perché il loro benessere è legato al potersi aprire agli altri e condividere il più possibile i propri sentimenti e la propria verità.
E ancora. Per alcuni la colonna “sconosciuto a sé” è assimilabile a una deprecabile inconsapevolezza, è qualcosa di cui vergognarsi o sentirsi in colpa, oppure è vissuta come una montagna insormontabile, una fatica, quasi un dolore. Per altri, è qualcosa di cui non tenere conto, che viene minimizzata o sottovalutata, qualcosa da evitare, mettere sotto il tappeto, o addirittura su cui scherzare.
Provate anche voi: è un modo per verificare dove vi trovate nel vostro percorso di crescita personale e, volendo, potete anche distinguere tra quello che ritenete sia il valore/grandezza delle celle in questo momento della vostra vita e quello che vorreste fosse, ovvero il vostro obiettivo. Visto che l’esercizio può essere ripetuto in qualsiasi momento, potrete così monitorare la vostra evoluzione.
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